America: dal We Can al We Can’t

Scritto dasu 18 Novembre 2016

All’indomani del voto statunitense le analisi si sono concentrate molto sull’analisi degli “errori” democratici e sull’incapacità dei media di cogliere il terremoto che stava arrivando. Sul versante degli schieramenti politici, se a Destra ovvia è stata l’esaltazione per un modello e dei risultati che si vorrebbero replicare in Europa (Orban, Salvini, Le Pen), a Sinistra si è oscillati tra mea culpa e terrore panico per il “nuovo fascismo che avanza”. Se non in pochi hanno gioito per un risultato che rappresentava (almeno) il rovesciamento di un tavolo già apparecchiato, qualcuno è arrivato addirittura a vedere in Trump un improbabile alleato di classe.

Qualcun’altro, più pacatamente, ha provato a suggerire che il risultato americano altro non è che l’ennesimo sintomo di una frattura, un “cleavage” (scollamento) tra pezzi di elettorato e i loro partiti di riferimento; più in profondità: tra blocchi sociali e la propria identità di classe e/o ruolo sociale (operai, middle class, razza, genere). L’ennesimo colpo dopo la BrExit, l’affermarsi del Movimento 5Stelle in Italia, la pesante ventata xenofoba che soffia in tante parti di Europa ma anche, sull’altro versante, l’affermarsi improvviso di Syriza in Grecia e Podemos in Spagna. Se l’accostamento di schieramenti opposti appare una bestemmia, non si può non cogliere  – senza nulla concedere alla retorica sistemica degli “opposti estremismi” – un dato comune non eleudubile: l’accelerarsi di processi che sfuggono alle previsioni e alla compatibilità su cui si sono retti decenni di pace (e conflitto) in Occidente. Qualcosa sta cambiando, certo ci sono direzioni contrapposte ed esiti non scontati (e al momento piuttosto cupi). Ma quello che è evidente è che le vecchie appartenenze stanno saltando perché alle nostre latitudini Democrazia e Capitalismo  – che bene o male sono andati a braccetto per un bel po’, rappresentando per i più la forma meno detestabile con cui esser governati, (sfruttati) e partecipare – non sono più in grado di mantenere le promesse o anche solo una soglia gestibile di amministrazione delle msierie quotidiane… che aumentano.

Per Raffaele Sciortino, provocatoriamente, Trump è l’erede di Obama, a cui ha strappato la bandiera del “Change”. Un Change però cambiato di segno, dove la disperazione ha preso il posto della speranza. Entrambi si sono trovati di fronte l’annosa domanda che si staglia davanti alla declinante potenza a stelle e strisce: “Come uscire dalla crisi dell’Impero?“.

Dopo anni di balle consapevoli del media mainstream e auto-incantamenti di una certa sinistra, oggi nessuno è più disposto a credere alla favoletta della ripresa  USA favorita dall’uso illuminato del Quantitative easing. Restano sul terreno, brutti da vedere, bad jobs e un raddoppio pericolosissimo del debito pubblico. Se il nodo politico basso – l’unico che vede la stampa ordinaria – è la fluidità dello spostamento di voti nel ventre della società – più in alto si sta consumando uno scontro nell’establishment americano per rispondere alla perigliosa domanda di cui sopra. Domanda che chiede in risposta un duplice “che fare”: sul fronte esterno e su quello interno.

Ascolta l’intervista con Raffaele Sciortino

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