Veleni e bonifiche. L’uroboro capitalista

Scritto dasu 25 Gennaio 2022

I signori del “prima il profitto” applicano da sempre un’idea di “economia circolare” per cui ritengono lecito ricavare il massimo guadagno senza calcolare l’eventuale danno ambientale, senza preoccuparsi della salute dei lavoratori o di quella degli ignari cittadini che, loro malgrado, abitano troppo vicini ai siti che rilasciano “i veleni”.
Quando la quota di profitto non è più garantita, quando le proteste ambientaliste danno troppo fastidio o quando partono le inchieste, si dileguano con il “bottino”. Le imprese falliscono o cambiano radicalmente la loro ragione sociale lasciando sulle spalle dei contribuenti, per assurdo anche gli stessi che direttamente hanno subito il danno, il peso della bonifica, del risanamento, della cura.
Bonifica, risanamento cura sono a loro volta un business: al centro continua ad esserci il profitto. Come un uroboro che si morde la coda, la logica del guadagno inghiotte ogni etica.
In Italia sebbene vi sia una legge del 2015 contro gli ecoreati e un’agenzia governativa preposta ad individuare le aree da bonificare, in realtà in moltissimi casi non si conosce l’entità e l’estensione del danno e tanto meno si stanno attuando operazioni di messa in sicurezza dei territori devastati.
Aree devastate da impianti nocivi per decenni sono abbandonate o con processi di bonifica risibili.
La stessa logica di inquinamento e bonifica è inaccettabile, perché il male vero è il capitalismo.

Ne abbiamo parlato con Marco Tafel, un compagno che ha scritto su questi temi un articolo uscito sul settimanale Umanità Nova.

Ascolta la diretta:

 


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