Bakur. Il silenzio sulla strage

Scritto dasu 2 Febbraio 2016

E’ cominciato tutto a luglio. Erdogan ha deciso di sferrare un attacco alla popolazione del Bakur, la parte meridionale del paese, quella abitata da persone di lingua curda.
In questi mesi l’imposizione continua del coprifuoco, gli arresti di massa degli attivisti più noti, l’occupazione militare delle zone che, dopo i primi attacchi armati, hanno proclamato l’autonomia, centinaia sono i morti, i feriti, migliaia i prigionieri politici.
Le immagini delle case crivellate di colpi, dei corpi degli uccisi, dei guerriglieri torturati e umiliati sono affidate ai social media. La narrazione degli eventi passa attraverso quanto filtra dai curdi della diaspora, dalle reti solidali, mentre l’informazione main stream, specie in Italia, ha scelto un silenzio fragoroso, indecente.
A pochi giorni dalla giornata della memoria una riflessione si impone. Il silenzio sul Bakur, non ricorda sin troppo bene quello sui lager nazisti, la cui “verità” emerse solo a guerra finita?
In Bakur si sta sperimentando una forma di autogoverno territoriale, che punta sul rifiuto dello Stato nazione, delle frontiere, delle divisioni tra i popoli.

Il nazionalismo curdo, che per decenni è stato al centro delle rivendicazioni del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, formazione marxista leninista classica, è ormai tramontato, il PKK ha subito una profonda mutazione culturale, che per certi aspetti richiama l’esperienza delle comunità chiapaneche insorte nel 1994.
In un patchwork in cui di Marx resta ben poco, mentre si affacciano nella borsa degli attrezzi Bakunin e, soprattutto, il teorico dell’ecologia sociale statunitense Murray Bookchin, in Bakur, come sulle montagne dell’Iraq e in Rojava si costruisce una società ecologica, che mira all’eguaglianza e propone una modello di mediazione del conflitto antiautoritario, basato su forme di autogoverno territoriale, in cui centrale è il superamento dell’oppressione femminile.

Un esperienza concreta intollerabile per il Califfato di Raqqa come per progetto di egemonia in chiave neo-ottomana di Recep Erdogan.
La resistenza vittoriosa contro le truppe dell’ISIS a Kobane, il crescere della solidarietà internazionale, il rinforzarsi della lotta in Turchia, la stessa affermazione elettorale dell’HDP, hanno messo fine alla tregua che durava da decenni, scatenando tutta la potenza di uno degli eserciti più forti della NATO contro la popolazione civile curda.
La posta in gioco è chiara: il disciplinamento violento di un’area, che stava, nei fatti realizzando una sottrazione progressiva dal controllo dello Stato turco.

Nel silenzio sulla strage in Bakur sono partiti i negoziati di Ginevra 3 sulla Siria, cui i rappresentanti del Rojava, inizialmente invitati, sono stati tenuti fuori, per la ferma opposizione della Turchia.

E’ di questi giorni la notizia che una delegazione di statunitensi, britannici e francesi si è recata a Kobane per concordare la strategia di lotta all’ISIS.
Gli Stati Uniti, finanziatori dell’ISIS in chiave anti Assad, oggi siedono ad un tavolo con la Turchia a Ginevra e inviano emissari in Rojava.
Nel grande gioco mediorientale, l’amministrazione statunitense, prova a giocare una doppia partita sul filo del rasoio. Da un lato il mantenimento dell’alleanza strategica con la Turchia, dall’altro il ridimensionamento del ruolo della Russia, che dopo l’intervento diretto in Siria, per la prima volta da decenni si riaffaccia sul Mediterraneo.

Ne abbiamo parlato con Ferat, un sostenitore del confederalismo democratico, che da qualche anno vive nel nostro paese.
Ferat ha anche fatto il resoconto della giornata di informazione e lotta di sabato 30 gennaio a Torino.

Ascolta la diretta:

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