L’informazione di Blackout

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Secondo i calcoli fatti dall’assessorato ai Tributi, con le aliquote base, 4 per mille sulla prima casa e 7,6 per mille sulle seconde, il Comune dovrebbe incassare 256 milioni di euro, di cui circa 90 sulle abitazioni di residenza. Allo Stato andranno invece circa 160 milioni di euro. Il conto per i torinesi è di 416 milioni.

Quando a essere in vigore era la vecchia Ici, l’aliquota in vigore sotto la Mole era del 5,25 per mille. Quella prevista per il nuovo tributo è del 4 per mille, ma il decreto “Salva Italia” concede ai municipi di au­mentarla (o eventualmente diminuirla) di altri 2 millesimi. Per Torino, quindi, si potrebbe immaginare un’imposizione si­mile a quella della vecchia Ici. Ma a scom­binare le carte in tavola è appunto la rivalutazione degli estimi catastali. Pren­dendo ad esempio un alloggio popolare di due vani in un quartiere periferico, l’impo­nibile passerà dagli attuali 134.279 euro a 214.846 euro. E su questa verrà applicata l’aliquota maggiorata al 5,25 per mille. Se con la vecchia Ici si pagava infatti 601 euro al netto della detrazione di 103 euro, con l’Imu il contributo salirà fino a 1.128 euro, al quale si dovrà sottrarre una base di 200 euro e un’ulteriore detrazione di 50 euro per ogni figlio al di sotto dei 26 anni fino a un massimo di 600 euro. Nel caso di una coppia senza figlia si passerà comunque da 601 a 928 euro. Un aumento secco del 54 per cento.

Quella sualla casa è sempre più un’emergeza sociale. Tra nuove tasse, fitti alle stelle, mutui capestro sono sempre più quelli che perdono un tetto. Intanto a Torino, dopo le speculazioni di Spina Due e Spina tre potrebbe essere ai blocchi di partenza un nuovo blocco di cemento e affari tra lo scalo Vanchiglia e la Barriera di Milano.
Da molti anni invece non si fanno case popolari, poco fruttuose per la potente lobby del cemento e del tondino.

A Torino tuttavia sta crescendo la lotta per la casa, tra resistenza agli sfratti e occupazioni abitative.

Ascolta l’intervista a Renato Strumia, bancario, sindacalista ed esperto di questioni economich

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Mercoledì 14 marzo. Incontro tra il ministro del welfare Fornero e CGIL, CISL; UIL e UGL su ammortizzatori sociali e articolo 18.
Il giorno precedente Fornero – a margine di un convegno alla Farnesina – aveva dichiarato che, senza l’accordo preventivo dei sindacati, non era disponibile a mettere sul tavolo una “paccata di miliardi” per gli ammortizzatori sociali. Una sorta di ultimatum ai sindacati.
Il 14 marzo invece Fornero garantisce che i soldi per gli ammortizzatori ci sono e che non verranno prelevati dalla previdenza.
Nei fatti l’intera trattativa verte su un sussidio da fame (tolto a pensioni, cassa integrazione e mobilità) e su licenziamenti più facili, giustificati per motivi “economici” e “disciplinari”.
Niente “paccata di miliardi”, solo tanto fumo per non far vedere che l’arrosto se l’è già mangiato qualcun altro. Mettere l’accento solo sull’articolo 18 rischia di nascondere la decisiva partita sugli ammortizzatori sociali.
Se il compromesso su questo tema fosse dignitoso – anche se al ribasso – Camusso potrebbe alzarsi dal tavolo delle trattative indossando la sua brava foglia di fico.
La “flessibilità in uscita”, l’equivalente in neolingua della “libertà di licenziare”, non è la sola richiesta di Governo e Confindustria. Anche la “flessibilità in entrata” diventa elemento di trattativa, dove la maggiore liberalizzazione delle assunzioni viene mascherata con la riduzione delle tipologie contrattuali precarie. Di fatto siamo di fronte alla definitiva precarizzazione del lavoro in entrata: tutti uguali, tutti apprendisti. Magari a vita.
La riforma degli ammortizzatori sociali mira a dare altro nome a cassa integrazione e indennità di disoccupazione, ma i soldi per fare questa operazione saranno meno di quelli che servono con le norme attuali.
I lavoratori, soprattutto su quelli di aziende che chiudono o che si ristrutturano, sopportano e sopporteranno sempre più il peso ed i costi della crisi, mentre si regalano soldi alle aziende e si prestano soldi alle banche con interessi risibili. Così le stesse banche possono investire sul debito pubblico e ricavarne guadagni enormi.

Ne abbiamo parlato con Stefano Capello della CUB:

Scarica l’audio dell’intervista


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